Fuori campo – Cinema 6/23

I FILM DEL MESE
a cura di MARIO MAZZETTI
fice.itFederazione Italiana Cinema d’Essai



KILLERS OF THE FLOWERS MOON
di Martin Scorsese

Sceneggiatura: Eric Roth, Martin Scorsese dal libro di David Grann| Fotografia: Rodrigo Prieto | Montaggio: Thelma Schoonmaker | Musiche: Robbie Robertson | Interpreti: Leonardo DiCaprio, Lily Gladstone, Robert De Niro, Jesse Plemons, Tantoo Cardinal, John Lithgow, Brendan Fraser, Cara Jade Myers | Produzione: Appian Way, Apple Studios, Imperative Entertainment, Sikelia Productions | Distribuzione: 01
Usa 2023 | colore 206’
Nelle sale dal 19 ottobre

Quattro anni dopo The Irishman e dieci dopo The Wolf of Wall Street, Martin Scorsese riunisce i suoi attori feticcio Leonardo DiCaprio e Robert De Niro, insieme alla sorprendente Lily Gladstone. Tre ore e mezza che non si fatica neanche un attimo a seguire per questa contro-epopea western che scopre l’ennesimo vulnus della storia americana, la strage dei nativi Osage per impossessarsi della loro ricchezza petrolifera. Una strage perpetrata dal gangster dal volto umano Robert De Niro, abile manipolatore che si propone come amico e benefattore degli “indiani”, con un surplus di paternalismo ai limiti del tollerabile. Per l’80enne De Niro è l’ennesimo ruolo che lascia il segno: ambiguo, beffardo, cinico. Il coetaneo e complice Scorsese si ritaglia invece un’apparizione autoironica nel sottofinale.
Il film è ambientato nell’Oklahoma degli anni ‘20, quando dalla riserva infruttuosa assegnata agli Osage, nelle Grandi Praterie, cominciò a zampillare l’oro nero: un evento ricostruito con le immagini di repertorio che danno l’avvio alla narrazione. Da lì ci si addentra lentamente e progressivamente nel dramma dei nativi: esseri umani fragili, facilmente manipolabili, distrutti dalle abitudini alimentari dei bianchi e dall’alcol. È una pagina oscura e poco nota della storia americana che riguarda anche la nascita dell’FBI, che proprio su questo caso cominciò le sue indagini. Come sempre nel cinema di Scorsese, il film è percorso da un senso di ineluttabile tragedia: l’impossibilità di redimere l’animo umano, di sanare la crudeltà dei protagonisti che si lasciano dietro una striscia di sangue infinita, eliminando via via tutti gli eredi della fortuna petrolifera con tutti i mezzi possibili.
Tratto da Gli assassini della terra rossa di David Grann, il film segue il ritorno a casa di Ernest Burkhart (DiCaprio), un uomo senza qualità che, dopo aver combattuto in guerra sul fronte europeo, viene accolto dal potente e ricco zio Bill Hale, detto The King (De Niro) e indotto a sposare Mollie, un’indiana benestante affetta da diabete (Lily Gladstone). Quello di DiCaprio è un personaggio apparentemente bidimensionale che acquista, nel corso della narrazione, sfaccettature e contraddizioni e sviluppa un sentimento autentico per la moglie. L’atmosfera è quella di un western sui generis, arricchito dall’umanità dei personaggi dei nativi, dalla loro filosofia di vita del tutto assente nei bianchi, interessati esclusivamente all’accumulo del denaro con ogni mezzo. (Cristiana Paternò, da Vivilcinema n. 4/2023)



FOTO DI FAMIGLIA
di Ryōta Nakano

Sceneggiatura: Ryōta Nakano, Tomoe Kanno | Fotografia: Hironori Yamazaki | Montaggio: Soichi Ueno | Musiche: Takashi Watanabe | Interpreti: Kazunari Ninomiya, Satoshi Tsumabuki, Haru Kuroki, Masaki Suda, Jun Fubuki, Mitsuru Hirata | Produzione: Toho Pictures, Pipeline, Bridgehead | Distribuzione: Officine Ubu
Giappone 2020 | colore 127’
Nelle sale dal 19 ottobre

Un feelgood movie può compiere la sua missione anche attraverso avversità e tragedie, come in questo atipico biopic sul fotografo Masashi Asada, che da piccolo posava col fratello per gli auguri di famiglia del padre. La passione della fotografia si è riversata in una specializzazione: le foto di famiglia posticce, ovvero la messa in scena dei sogni proibiti del padre casalingo, della madre capo infermiera e del fratello impiegato. Un modo per rinsaldare i rapporti e anche per superare le incertezze esistenziali di Masashi, poco incline a intraprendere una qualsiasi carriera. A Tokyo, dopo la gavetta e l’insuccesso della sospirata pubblicazione del volume sugli Asada, un premio importante segna la svolta e la scelta di portare avanti il progetto con altri nuclei famigliari.
Con lo stesso pudore con cui narra l’infatuazione di lungo corso per la dolce (ma decisiva) Wakana, con cui convive in una relazione priva di sesso, il regista affronta le conseguenze del terremoto di Tohoku di marzo 2011, lo stesso del disastro di Fukushima: in cerca di notizie sulla prima famiglia da lui fotografata, Asada approda da volontario sulla costa spazzata via dallo tsunami e contribuisce alla creazione di un archivio fotografico, nuova missione col medesimo obiettivo: la memoria (anche ricostruita) come lenitivo, come spinta ad andare avanti per superare il vuoto della perdita.
La direzione, tra toni e ritmo che variano (come la voce fuori campo), è efficace. Nonostante il pudore e l’ironia dispiegati, preparate i fazzoletti. (Mario Mazzetti, da Vivilcinema n. 4/2023)



COMANDANTE
di Edoardo De Angelis

Sceneggiatura: Sandro Veronesi, Edoardo De Angelis | Fotografia: Ferran Paredes Rubio | Montaggio: Lorenzo Peluso Musiche: Robert Del Naja | Interpreti: Pierfrancesco Favino, Massimiliano Rossi, Johan Heldenbergh, Silvia D’Amico, Gianluca Di Gennaro | Produzione: Indigo Film, O’Groove, Tramp, Rai Cinema, VGroove, Wise Pictures | Distribuzione: 01
Italia/Francia 2023 | colore 120’
Nelle sale dal 31 ottobre

“Noi affondiamo il ferro nemico senza pietà ma l’uomo lo salviamo”. Una frase, dal forte impatto emotivo, pronunciata da Salvatore Todaro quando decise di salvare 26 naufraghi belgi, condannati ad affogare in mezzo all’oceano, per sbarcarli nel porto sicuro più vicino. Era l’ottobre del 1940, all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, quando il sommergibile Cappellini della Regia Marina fu attaccato da un mercantile di nazionalità belga che viaggiava a luci spente e che aprì improvvisamente il fuoco. A seguito di una breve ma violenta battaglia, il sommergibile italiano affondò la nave nemica a colpi di cannone. A quel punto il comandante Todaro prese una decisione destinata a entrare nella Storia: quella di seguire le leggi eterne che governano il cielo e il mare perché superiori a qualunque altra legge. Todaro scelse quindi di non seguire gli ordini bellici e di salvare i naufraghi, navigando in emersione per tre giorni, rendendosi così visibile alle forze nemiche e mettendo a repentaglio la propria vita e quella del suo equipaggio.
Per la quinta volta dietro la macchina da presa, Edoardo De Angelis (Indivisibili, Il vizio della speranza) dirige e scrive, assieme a Sandro Veronesi, un film bellico dall’animo pacifista, costruito attorno alla figura di un eroe di guerra guidato da un’inflessibile disciplina militaresca ma anche da una forte umanità. Film d’apertura dell’80ª Mostra di Venezia, Comandante è un’opera molto ambiziosa per sforzo produttivo e tematiche affrontate, che usa il passato per provare a parlare del presente. La ricostruzione nel dettaglio del sommergibile Cappellini contribuisce sicuramente a rendere il film scenograficamente credibile e a tratti moderatamente spettacolare. In questo senso, la regia di De Angelis sfrutta al meglio gli ambienti claustrofobici dell’imbarcazione per costruire il suo film principalmente sui primi piani intensi di Pierfrancesco Favino, capaci di trasmettere con convinzione la forza morale di Todaro.
Nonostante le buone premesse, il film rimane però vittima di una (non) scelta ideologica che finisce per rendere la visione meno memorabile del previsto. Nel momento in cui il film potrebbe usare la storia del sommergibile per universalizzare un messaggio senza bandiere e senza tempo, De Angelis sceglie di limitare il discorso all’italianità e al patriottismo, minimizzando in questo modo la portata del racconto e scadendo in una retorica fin troppo esibita.  (Francesco Ruzzier, da Vivilcinema n. 4/2023)



LUBO
di Giorgio Diritti

Sceneggiatura: Giorgio Diritti, Fredo Valla dal romanzo “Il seminatore” di Mario Cavatore | Fotografia: Benjamin Maier | Montaggio: Paolo Cottignola | Musiche: Marco Biscarini | Interpreti: Franz Rogowski, Christophe Sermet, Valentina Bellé, Noemi Besedes, Cecilia Steiner | Produzione: Indiana Production, Aranciafilm, Hugofilm Productions, Proxima, Rai Cinema | Distribuzione: 01
Italia/Svizzera 2023 | colore 175’
Nelle sale dal 9 novembre

Con il respiro dei grandi romanzi e un protagonista quasi sempre in scena nell’arco di un ventennio, Lubo intreccia vicende personali e una tragedia misconosciuta del XIX secolo: la comunità nomade dei jenisch privata delle proprie radici, i bimbi separati dalle famiglie, una vera e propria pulizia etnica emersa nella sua sistematicità solo 50 anni fa. Già oggetto dell’esordio di Valentina Pedicini Dove cadono le ombre, la delicata materia trova, grazie all’autore de Il vento fa il suo giro e Volevo nascondermi (e al romanzo di Cavatore), una chiave narrativa corposa che fa leva sull’attore tedesco Franz Rogowski, a proprio agio in ruoli molto diversi tra loro, grazie a una fisicità irregolare e a un volto mobilissimo.
Lubo Moser si esibisce per strada con moglie e tre figli piccoli finché, nel 1939, viene coscritto per la difesa dei confini svizzeri. Subito dopo, i bimbi vengono strappati alla moglie, che soccombe nel tentativo di opporsi. Quando uno sconosciuto, all’apparenza contrabbandiere, gli chiede di accompagnarlo in una missione notturna vicino alla frontiera, Lubo coglie l’occasione, attraverso il crimine, per uno scambio di identità: Moser diventa Bruno Reiner, un agiato commerciante di base a Zurigo, poi a Bellinzona; si mette alla vana ricerca dei figli, raccoglie testimonianze di altri jenisch per comporre il mosaico di un disegno diabolico concepito dallo Stato federale. Le signore che assicurano una sistemazione agli “orfani” sono influenzate dai discorsi sulla razza, a Lubo non resterà che operare una vendetta sui generis, dopo aver incrociato il proprio percorso con la più grande tragedia del ‘900 e prima di innamorarsi di una ragazza madre e fare i conti, molti anni dopo, con la giustizia.
Con l’ideale suddivisione in capitoli, dapprima tra le montagne del Cantone Grigioni, poi tra i lussi di Zurigo e infine nei paesaggi lacustri del Canton Ticino e di Verbania, la Storia e le storie narrate mostrano il peggio della natura umana, lo sfruttamento ammantato di beneficenza, la dissoluzione di un patrimonio culturale, non senza porre quesiti che ancora oggi rischiano di apparire imbarazzanti, in nome della ragion di stato e della più bieca uniformità. Con la consueta pacatezza dei toni (non priva di scene forti) e l’attenzione ai dettagli, ai paesaggi che rispecchiano lo stato d’animo, Diritti compone un affresco che non teme la lunghezza per puntare il dito contro una vicenda sconcertante, troppo vicina a noi per considerarla cosa d’altri. (Mario Mazzetti, da Vivilcinema n. 4/2023)



THE OLD OAK
di Ken Loach

Sceneggiatura: Paul Laverty | Fotografia: Robbie Ryan Montaggio: Jonathan Morris | Musiche: George Fenton | Interpreti: Ebla Mari, Dave Turner, Debbie Honeywood, Trevor Fox, Neil Leiper, Laura Lee Daly | Produzione: Sixteen Films, StudioCanal UK, Why Not Productions, BBC Films, Les Films du Fleuve | Distribuzione: Lucky Red
Regno Unito/Francia/Belgio 2023 | colore 113’
Nelle sale dal 16 novembre

Ripartire dalla solidarietà, da un pasto condiviso e dalla reciproca comprensione, per superare la latitanza della politica di sinistra, la propaganda della destra e il gap che divide gli esseri umani. La “vecchia quercia” Ken Loach non sbaglia un colpo: con due Palme d’oro all’attivo (Il vento che accarezza l’erba e Io, Daniel Blake), l’86enne regista firma l’ennesimo film politico e poetico con una forte connotazione: un manifesto, una presa di posizione che contiene la passione mai sopita e la ferma convinzione, sua e dello sceneggiatore e sodale Paul Laverty. Coerenza e saggezza sono le note di basso continuo di questa vicenda, se vogliamo semplice, ma che arriva dritta al cuore e spiega tutto quel che c’è da capire.
The Old Oak è un vecchio pub, unico centro di aggregazione di un villaggio nel Nordest dell’Inghilterra, dove le miniere sono chiuse da tempo e le lotte dei lavoratori, con gli scioperi del 1984, solo un lontano ricordo. Il pub è gestito da TJ Ballantyne (Dave Turner), un uomo di mezza età più volte ferito dalla vita ma non ancora affondato. È un brav’uomo che condivide l’esistenza con la sua cagnolina e, quando in città arriva un gruppo di rifugiati siriani, si mette subito a disposizione per aiutarli. Ma è quasi l’unico. Infatti gli stranieri, a cui sono destinate abitazioni e altri aiuti, vengono vissuti dagli abitanti del posto come usurpatori e concorrenti. C’è più di un’aggressione, verbale e anche fisica, molti fraintendimenti, molte chiacchiere velenose, qualche ritorsione. È la classica guerra tra poveri alimentata dall’ignoranza. Non mancano tuttavia gli uomini e le donne di buona volontà, come la giovane siriana Yara (Ebla Mari), che ha imparato l’inglese facendo volontariato in un campo profughi, e che coltiva la passione per la fotografia grazie alla macchina regalatela dal padre, ora incarcerato e forse torturato dal regime di Assad. La giovane e TJ stringono un forte legame di amicizia e solidarietà che illuminerà l’intera comunità.
La fotografia, così come la macchina da presa di Loach, diventa uno strumento potentissimo per dire quello che non si riesce a dire a parole e aiutare tutti a comprendere, in una sorta di rispecchiamento del senso profondo del cinema di Loach. “Forza, solidarietà e resistenza” sono le tre parole impresse su uno stendardo che viene portato insieme da inglesi e siriani in corteo, e sono anche la cifra preziosa dell’opera di questo regista. (Cristiana Paternò, da Vivilcinema n. 4/2023)


  EMULSIONI n. 6/2023 – Torna al sommario



 

Seguici su Instagram