
LA STORIA
FRATELLI DI RISO E DI LIQUORE
Solo per il tempo necessario alla lettura di questo articolo, non pensiamo a ciò che sta succedendo nel Nord Africa e alle tragiche complessità del mondo attuale, ma immaginiamo, assecondando una breve fantasia (non del tutto) romanzesca, come sarebbe potuta essere la Sicilia dominata dagli Arabi.
Innanzitutto il popolo, quello autentico del deserto della penisola: alti, magri, una dentatura bianchissima e bella, la barba rada, uno sguardo penetrante… cavalieri espertissimi, galanti con le donne, ospitalissimi, ma anche crudeli, amanti della poesia.
Poi, gli arabi della città: un po’ più grassottelli, oziano tutto il giorno distesi su morbidi cuscini, golosi, amanti di raffinatezze persiane e desiderosi di più mogli. Questi ultimi ammiravano i loro confratelli del deserto, tanto che mandavano i figli prediletti a balia da loro, prima di riprenderli in casa e indirizzarli alle faticose traversate mediterranee. Infatti, con l’avvento dell’Islam, ci fu un notevole sviluppo commerciale tra la madrepatria e le terre conquistate.
E fu così che molti alimenti compirono lunghi itinerari, come nel caso del riso, il quale dapprima arrivò in Sicilia e solo dopo, per evidente scarsità d’acqua, sbarcò in Spagna; i carciofi (a cui dobbiamo anche il nome); le arance; le melanzane. Una notevole ricchezza di cultura agro-gastronomica, tra cui persino un alimento simbolo dell’Italia: gli spaghetti.
E poi, argomento per noi di estrema importanza, visto lo spazio che dedichiamo ai gelati al gusto di liquore, agli Arabi dobbiamo i sorbetti, corredati dalle due parole arabe, storta e alambicco. Con questi due strumenti gli Arabi distillavano spirito anche di vino, vale a dire la grappa, che non veniva però usata come bevanda, bensì come alcool (altra parola araba), o come liquido per alimentare le lanterne.
Come è noto, la religione proibisce ai musulmani di bere bevande corroboranti; però qualche dubbio sorge perché in quel tempo era d’uso comune aromatizzare lo spirito di vino con l’anice e questa tradizione prosperò e ancora resiste indomita proprio nei luoghi dove fu più influente la loro civiltà. Stiamo parlando dell’anis spagnolo, del tutone siciliano, del raki o, detto in una parola comprensibile a tutti, del mistrà.
E sempre sotto quella dominazione, che va dai primi decenni dell’800 all’anno Mille, iniziò l’infinita serie dei ratafià, ottenuti dall’infusione di bucce o polpa di frutta nello spirito di vino. Dai domini arabi in Europa meridionale i ratafià, le storte, gli alambicchi risalirono per tutto il continente e divennero d’uso comune soprattutto nei conventi e nei monasteri, dove monaci e suore inventarono una serie immortale di elisir con erbette medicinali raccolte nel chiuso dei propri orti.
E da allora iniziò l’affascinante storia dei liquori, dai quali anche discendono un bel po’ di romanzi e di filosofia, che aiuteranno magari ad affinare l’intelligenza sulle disgrazie del presente. (MS)