I FILM DEL MESE
a cura di MARIO MAZZETTI
fice.it – Federazione Italiana Cinema d’Essai
IL CIELO BRUCIA
di Christian Petzold
Sceneggiatura: Christian Petzold | Fotografia: Hans Fromm | Montaggio: Bettina Böhler | Interpreti: Thomas Schubert, Paula Beer, Enno Trebs, Langston Uibel, Matthias Brandt | Produzione: Schramm Film, ZDF | Distribuzione: Wanted Cinema Germania 2023 | colore 102’
Gran premio della giuria alla Berlinale, Il cielo brucia è il decimo film del regista tedesco, secondo capitolo di una serie sugli elementi, dopo l’acqua di Undine, e sulla complessità dei rapporti interpersonali. Compatto per ambientazione e inquadramento dei personaggi, ricorda il primo Rohmer, peraltro citato da Petzold come una delle fonti d’ispirazione assieme a un racconto di Cechov e alle sue esperienze di inizio carriera. Del quartetto, poi quintetto di personaggi, il principale è Leon, giovane scrittore che assieme all’amico Felix si stabilisce nella villa di famiglia di quest’ultimo, a pochi passi dal Mar Baltico, per completare il nuovo manoscritto. Felix a sua volta prepara il portfolio per l’ammissione all’Accademia di Belle Arti. Con l’auto in panne, arrivati alla villa i due scoprono di non essere soli e di Nadja, per le prime due notti, si sentono solo voce e sospiri erotici dall’attigua stanza in compagnia di Devid, giovane bagnino del luogo.
Ne scaturiscono alcuni giorni di interazioni e conoscenza reciproca, finanche uno scambio di partner, mentre emerge il carattere di Leon: Petzold non lo dice espressamente ma deve provenire da un contesto sociale meno fortunato; sembra preda di tensione emotiva, risentimenti, gelosia professionale. Come scrittore, inoltre, sembra osservare quanto gli accade intorno ma in definitiva non sembra trarne vantaggio. Nonostante la diffidenza, Leon fa leggere il manoscritto alla ragazza, che ha un lavoro stagionale nella vicina cittadina, ricevendone un parere negativo, e attende con ansia l’arrivo dell’editore dal quale teme una reazione analoga. Intanto, la foresta presso cui sorge la villa è minacciata da un incendio che non cessa di estendersi, con l’allarme delle autorità e le fiamme viste da lontano, anche se il vento sembra soffiare in senso opposto…
Non diremo di più: semplice nella struttura, la trama si infittisce gradualmente, fino a lasciare il passo a una rielaborazione in chiave letteraria, dopo una serie di svolte e spunti tanto narrativi quanto visivi, molto intriganti e che denotano la maturità espressiva e l’abilità di sceneggiatore di Petzold. Bene la prova degli interpreti, dal malmostoso e inespresso Thomas Schubert (“devo lavorare”, quasi a sottolineare la sua superiorità morale, la frase ricorrente del suo Leon) all’accomodante e aperto Felix di Langston Uibel alla solare, misteriosa Nadja di Paula Beer, una degli attori-feticcio di Petzold (Mario Mazzetti, da Vivilcinema n. 5/2023)
UN COLPO DI FORTUNA
di Woody Allen
Sceneggiatura: Woody Allen | Fotografia: Vittorio Storaro | Montaggio: Alisa Lepselter | Interpreti: Lou de Laâge, Niels Schneider, Melvil Poupaud, Valérie Lemercier, Elsa Zylberstein, Grégory Gadebois | Produzione: Gravier Productions, Dippermouth, Perdido Productions, Petite Fleur Productions | Distribuzione: Lucky Red | Francia/USA 2023 | colore 93’
Nelle sale dal 6 dicembre
Che strano effetto i titoli di testa della 50^ regia di Woody Allen: in francese, il solito font stavolta più grande (problemi di vista?), il jazz che dallo swing anni ’30 fa un balzo avanti di una trentina d’anni (Cantaloupe Island di Herbie Hancock, 1964) e poi la storia tutta francese, senza americani a Parigi come in passato. Coup de chance è un prevedibile, ma riuscito senza riserve, ripasso dei temi topici del cinema di Allen. Le bizzarrie del caso, il senso di colpa, il delitto impunito, le intuizioni dei singoli sono al centro di una trama che riporta lo spettatore dalle parti di Match point.
Il film declina le diverse gradazioni del concetto di colpo di fortuna, come quello che fa incontrare in un quartiere elegante di Parigi Fanny e Alain, che erano stati compagni di liceo a New York senza mai parlarsi. Lui, aspirante scrittore separato, le confida di essere stato segretamente innamorato di lei, che il secondo matrimonio ha trasformato da allegra bohémienne a “moglie-trofeo” di un ricco consulente finanziario, l’egocentrico Jean dalle manie di controllo, da esibire nei circoli altolocati e nei weekend in campagna all’insegna della caccia, quando non è impegnato a giocare con un trenino elettrico di lusso. La nostalgia per un periodo mitizzato porta Fanny e Alain ad avvicinarsi sempre di più, consumando un idillio che presto suscita la gelosia di Jean. Altro personaggio centrale è la madre di Fanny, avida lettrice di gialli e molto legata al genero. Lasciamo al lettore il privilegio di scoprire dove porteranno le vicende della novella Madame Bovary, tra investigazioni private e personaggi loschi pronti ad entrare in scena.
Da sottolineare l’ottimo casting, che al fianco del quartetto di protagonisti (Lou de Laâge, Niels Schneider, Melvil Poupaud e Valérie Lemercier) schiera una serie di volti noti del cinema d’Oltralpe anche in ruoli secondari. Rispetto alle precedenti sortite franco-italo-spagnole di Allen, sempre in cerca di finanziamenti ormai negatigli in patria, stavolta dirigere attori che si esprimono in un’altra lingua non stride troppo: nella seconda parte, Lemercier ricorda la Diane Keaton di Misterioso omicidio a Manhattan, anche se si ride molto meno. Prevale la trama gialla, con qualche battuta che resta impressa (“non ha senso dire troppo sexy, è come dire troppo ricco”) e un finale che a Venezia ha strappato numerosi applausi. Insomma, se davvero fosse l’ultimo film, a 87 anni Allen avrebbe chiuso in bellezza. (Mario Mazzetti, da Vivilcinema n. 5/2023)
20.000 SPECIE DI API
di Estibaliz Uresola Solaguren
Sceneggiatura: Estibaliz Uresola Solaguren | Fotografia: Gina Ferrer García | Montaggio: Raúl Barreras | Interpreti: Sofía Otero, Patricia López Arnaiz, Ane Gabarain, Sara Cózar, Itziar Latzkano, Martxelo Rubio | Produzione: Especies de Abejas, Gariza Films, Inicia Films | Distribuzione: Arthouse | Spagna 2023 | colore 125’
Nelle sale dal 14 dicembre
Aitor ha 8 anni e fatica a relazionarsi con gli altri, anche a dormire, perché non si riconosce nel genere maschile con cui è nato. Tutti lo chiamano Cocó, soprannome che non gli va a genio. Nemmeno i genitori, in fase di separazione, sanno aiutarlo. Da Bayonne, in cerca di tregua estiva, Ane si trasferisce per un po’ con Cocó e i fratelli maggiori nella casa natale dalla madre Lita, in un piccolo centro dei Paesi Baschi. Figlia di uno scultore scomparso, Ane attraversa anche un’altra crisi: vorrebbe riprendere la scultura, abbandonata anni prima in favore della maternità.
Film frontaliero che inizia da un confine, uno sradicamento, 20.000 specie di api abbandona le convenzioni sociali urbane per calarsi nel ritmo lento e arcaico della vita rurale basca. In questo contesto sospeso e arioso, fatto per l’esplorazione, Aitor/Cocó – capelli lunghi, una passione per gli abiti femminili e il rifiuto di diventare un adulto come suo padre – fa continuamente domande, per contrastare la confusione e la vergogna che prova nel sapere di non corrispondere alle aspettative del mondo. Nella sua indagine, con tutta la serietà dell’infanzia, misura se stesso attraverso i modelli più vicini: la salda religiosità della nonna Lita, non esente da pruderie e ipocrisia; la complicità affettuosa della coetanea Niko, che lo tratta come un’amica; l’osservazione laica e grata della zia materna Lourdes, apicultrice anticonvenzionale.
Cinema dalle forti radici territoriali, familiari e identitarie, l’esordio nel lungo di finzione di Estibaliz Uresola Solaguren, nata a Bilbao nel 1984, si prende tutto il tempo e i simboli necessari per delineare un percorso di scoperta sessuale, anche tramite le reazioni di una piccola comunità. Il viaggio di Cocó (Sofia Otero, Orso d’Argento per la miglior interpretazione a Berlino 2023) e il senso del film stanno nella distanza tra come il bambino è percepito e come invece immagina, sogna se stesso. Tra le atmosfere di Tomboy di Céline Sciamma e la tenace rete familiare di Alcarràs di Carla Simón, prende corpo il racconto diretto, senza omissioni, di un’incerta, delicata rinascita, pervaso dall’idea che l’identità sia qualcosa in divenire. Plastica, malleabile come la cera d’api che è base per le sculture di Ane e al tempo stesso farmaco per gli umani. Una pluralità di possibilità che imita le varietà naturali e infonde il coraggio di “trovarsi” e, come nel bel finale corale, di farsi trovare. (Raffaella Giancristofaro, da Vivilcinema n. 5/2023)
IL MAESTRO GIARDINIERE
di Paul Schrader
Sceneggiatura: Paul Schrader | Fotografia: Alexander Dynan | Montaggio: Benjamin Rodriguez | Musiche: Devonté Hynes | Interpreti: Joel Edgerton, Sigourney Weaver, Quintessa Swindell, Eduardo Losan, Esai Morales | Produzione: Curmudgeon Films, Kojo Studios, Ottocento Films | Distribuzione: Movies Inspired | USA 2022 | colore 107’
Nelle sale dal 14 dicembre
Presentato a Venezia 2022 in occasione del Leone d’Oro alla carriera, Il maestro giardiniere introduce un nuovo capitolo nella galleria di personaggi in cerca di redenzione del 77enne autore, una seconda possibilità arricchita dalla metafora della cura del mondo vegetale che immancabilmente risponde alle aspettative, una fenomenologia che l’uomo può assistere (“il miglior concime è il denaro”) rispetto al caos del mondo degli umani.
Il giardiniere del titolo è Narvel (Joel Edgerton), introverso curatore della proprietà della ricca ereditiera Norma (Sigourney Weaver), austera ma incline ad assecondare i propri desideri in periodici convegni amorosi col protagonista, in un rapporto di dipendenza che da solo merita la visita. Un giorno la signora, che non ha eredi, chiede a Narvel di assumere come assistente la pronipote, frutto di un amore sbagliato e come la madre a rischio tossicodipendenza. La 20enne Maya (Quintessa Swindell) ha i suoi problemi, e con Narvel allaccia un rapporto che dal paterno sembra scivolare verso la sfera erotica. L’integerrimo protagonista tradisce nei tatuaggi un passato più che burrascoso: attraverso la ragazza, il destino lo metterà alla prova, lasciando emergere aspetti del carattere che credeva sepolti.
Rispetto alle opere più cupe di Schrader, Il maestro giardiniere assume quasi le sembianze di una favola, girata, nonostante i pregi della sceneggiatura e la direzione degli attori, un po’ “col pilota automatico” rispetto ai suoi standard. (Mario Mazzetti, da Vivilcinema n. 5/2023)
FOGLIE AL VENTO
di Aki Kaurismaki
Sceneggiatura: Aki Kaurismaki | Fotografia: Timo Salminen | Montaggio: Samu Heikkilä | Interpreti: Alma Pöysti, Jussi Vatanen, Alina Tomnikov, Martti Suosalo | Produzione: Sputnik, Oy Bufo, Pandora Film | Distribuzione: Lucky Red | Finlandia/Germania 2023 | colore 81’
Nelle sale dal 21 dicembre
Più che mai chapliniano, quasi senza parole come un’opera dei tempi del muto, il nuovo film di Aki Kaurismaki è illuminato da una grazia tutta speciale, che conferma il tocco unico e impareggiabile del grande regista finlandese, autore, recentemente, di titoli come L’uomo senza passato e Miracolo a Le Havre.
Considerato il quarto capitolo di una “trilogia dei perdenti”, il film racconta la contrastata e tenera storia d’amore tra due cuori solitari nei bassifondi di una Helsinki grigia e triste, segnata da echi della guerra in Ucraina, che arrivano ogni volta che si accende la radio, e dalla presenza angosciante della crisi economica: due elementi di forte attualità virati in chiave assolutamente poetica. Una donna viene licenziata da un supermercato perché ha “rubato” del cibo scaduto, un uomo perde il lavoro da metalmeccanico a causa del suo amore per la bottiglia. Sono persone qualunque, senza nome, oltretutto senza valore in un sistema economico spietato. Eppure, sono fatti l’uno per l’altra e infatti si incontrano, sia pure per caso, in una serata al karaoke e, quasi senza parole, si piacciono, ma il destino ha in serbo per loro più di un ostacolo e di una complicazione. Gli esseri umani sono davvero foglie al vento, esposti ad ogni minima casualità e variazione climatica e ambientale.
Ecco due attori in stato di grazia, Alma Pöysti e Jussi Vatanen, con una chimica che si esprime attraverso sguardi e silenzi, in un romanticismo trattenuto eppure carico di emozioni e non detto, con digressioni ironiche e buffe, dettate dagli altri personaggi. Il risultato di questa miscela è un film semplice ma a suo modo complesso, che contiene un’immensa ricchezza di spunti, tra cui diversi riferimenti cinematografici e musicali, dalla versione finlandese di Mambo italiano a Rocco e i suoi fratelli, fino ad arrivare al cinema di Jim Jarmusch, per certi versi tanto affine. Ma è soprattutto un cinema che emoziona e incanta lo spettatore nella sua aurea brevità. Alla fine, quello che conta davvero in questo autore è l’immensa umanità che traspare da ogni fotogramma, l’amore per l’essere umano nella sua nudità disarmata e disarmante. (Cristiana Paternò, da Vivilcinema n. 5/2023)
IL RAGAZZO E L’AIRONE
di Hayao Miyazaki
Sceneggiatura e Storyboard: Hayao Miyazaki | Fotografia: Atsushi Okui | Montaggio: Takeshi Seyama, Rie Matsubara, Akane Shiraishi | Musiche: Joe Hisaishi | Animazione: Takeshi Honda | Produzione: Studio Ghibli, Toho, Studio Ponoc | Distribuzione: Lucky Red | Giappone 2023 | colore 124’
Nelle sale dall’1 gennaio
A dieci anni dal precedente Si alza il vento e dopo ben sette anni di lavorazione, Il ragazzo e l’airone segna innanzitutto il grande ritorno del maestro dell’animazione nipponica e del mitico Studio Ghibli. Un ritorno che mantiene le promesse dell’attesa, capace di utilizzare il testo cui liberamente s’ispira (E voi come vivrete? di Genzaburō Yoshino) attraverso l’animazione tradizionale per farsi da un lato summa dei principali temi che informano il percorso espressivo dell’autore, dall’altro ulteriore riflessione sulla guerra e sulle conseguenti privazioni: l’infanzia disastrata, la morte-rinascita (tema formalizzato ancora una volta attraverso mondi contigui, divisi da soglie da superare). Soprattutto perché, nella catabasi di cui è protagonista Mahito, il dodicenne orfano di madre che, per ritrovarla, si spinge in un territorio abitato da creature fantastiche, si ritrova lo stile di Miyazaki, il suo inconfondibile design dei personaggi ma anche la potenza visionaria di una narrazione capace di vibrare senza mai perdere leggerezza.
Che sia il film-summa di un percorso espressivo in grado di snodarsi su oltre mezzo secolo o l’aureo punto terminale di un’impareggiabile filmografia, Il ragazzo e l’airone è soprattutto un’opera testamentaria, un prezioso lascito che ha il suo pregio maggiore nel perfetto equilibrio tra il cosa esprime e il come lo fa. Proprio per questo, capace di ancorarsi profondamente alla coscienza degli spettatori, siano essi adulti o bambini. (Francesco Crispino, da Vivilcinema n. 5/2023)
PERFECT DAYS
di Wim Wenders
Sceneggiatura: Wim Wenders, Takuma Takasaki | Fotografia: Franz Lustig | Montaggio: Toni Froschhammer | Interpreti: Kôji Yakusho, Tokio Emoto, Arisa Nakano | Produzione: Master Mind, Wenders Images | Distribuzione: Lucky Red | Giappone/Germania 2023 | colore 123’
Nelle sale dal 4 gennaio
I “giorni perfetti”, come recita la canzone di Lou Reed che dà il titolo al film di Wim Wenders, sono quelli in cui si è in pace con se stessi e si vive con pienezza ogni attimo della propria giornata, assaporando semplicemente la vita. Così fa Hirayama, che per lavoro pulisce i futuristici gabinetti pubblici di Tokyo, ed è capace di mettere in ogni suo gesto attenzione e cura. Da quando si sveglia e sistema la piccola camera alla lettura della sera prima di dormire, Hirayama, che porta lo stesso nome del protagonista de Il gusto del sakè di Ozu, è completamente dentro le cose che fa e che osserva con occhi curiosi. Wenders ce lo mostra nei gesti quotidiani ripetuti sempre uguali, nell’amore che dedica ai libri e alla musica rock anni ’70 (Lou Reed, Velvet Underground, Patti Smith), ascoltata in macchina andando al lavoro. Ogni giorno è punteggiato da piccoli avvenimenti tutt’altro che insignificanti: il giovane collega che parla delle sue storie d’amore, un bambino che si perde e che Hirayama riconsegna alla madre, il cambio di luce che filtra dalla chioma del grande albero nel parco e poi il rito dell’igiene personale nel bagno pubblico.
Un giorno la giovane nipote si presenta alla sua porta rompendo per breve tempo la sua solitudine, e dall’incontro scaturiscono una tenerezza, un’emozione trattenuta ma fortissima, che arricchirà la vita di entrambi. Forse nel passato dell’uomo c’è stato un dolore, ma anche questo ormai si è addolcito nella pratica quotidiana della gentilezza.
Con uno sguardo limpido e pieno di curiosità, Wenders osserva il protagonista muoversi nella sua Tokyo, città già amata ed esplorata in passato dal regista (Tokyo-Ga), costruendo sul linguaggio del corpo di Hirayama un linguaggio cinematografico essenziale e intimo, avvolgente nella sua lentezza piena di piccole sorprese. In chiusura, un lungo primo piano del protagonista riassume tutti i sentimenti che si sono agitati nella sua anima, dalla felicità all’angoscia, senza che sia detta una sola parola: una sequenza che omaggia la magia del cinema muto. Il passaggio delle emozioni sul suo volto, che indica il superamento di errori e dolori passati nella serenità dell’oggi, è il tocco da maestro di un attore magnifico, Kôji Yakusho premiato a Cannes, grazie al quale l’umile Hirayama diventa il paradigma di un modo di essere gentile e pieno di compassione. (Barbara Corsi da Vivilcinema n. 5/2023)